Piove.
Alcun suono eccetto il tintinnìo delle gocce d’acqua triste, si ode in tutta la casa.
Esse sbattono prepotentemente sui vetri gelidi dei balconi, delle finestre.
Scrivo mentre ogni essere o cosa giace, sogna, per sfuggire alla propria esistenza altrimenti grigia e scialba e miseramente reale.
Buio.
L’oscurità travolge le pareti, il soffitto, le librerie polverose covi d’insetti notturni.
Le pagine bianche riflettono la luce calda dell’abat-jour, sembra che le parole fuoriescano da qui da sole, animate da un istinto primordiale che spinge loro a farsi vita, a divenire reali, abbandonare per sempre l’astrattismo della poesia. Quanta vana letteratura è stata sprecata!, qual dolore provano adesso queste lettere sconnesse che ora fluttuano nell’etere! Volteggiano sopra questi fogli pesanti, ora svuotati di ogni senso e virtù. Prima al centro della stanza, or ora si spostano, corrono via, rompono i vetri – frastuono – l’acqua le appesantisce, alcune cadono sulla terra urlante, altre tornano. Di libertà private così presto.
( Dinnanzi al dolore siamo tutti anime gemelle: nessuna distinzione, nessun sesso, soltanto spiriti ciechi in balìa del caos. )
Lei, la pioggia, continua a cadere. Scroscia, perturba le mie riflessioni. Il fumo di una sigaretta si leva, le dita avvertono la bassa temperatura di questa notte autunnale – stagione tardiva nella regione del sole. Non vi è pace, non vi è guerra. Il cane ai piedi del letto miagola, immagina praterie assolate e il volto della sua padrona, ora lontana nella laguna. Non io, non posso dormire, gli incubi mi accerchierebbero.
L’ieri mi tormenta, il futuro non esiste e l’oggi è irreale, una dimensione fittizia in cui crediamo di vivere, invece ci assedia, ci possiede, ma prende una forma tutta sua, mai nostra. Noi non siamo reali. Non io, non questo diario, non queste lettere componenti parole.
Non tu,
non io.